- 22 Ottobre, 2025
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Biologia marina
La storia dell’aragosta: la Cenerentola del mare
Dalla tavola della nonna al mito del lusso anni ‘80
Ogni volta che mi trovavo a pranzo da mia nonna e in tavola compariva qualcosa che non mi facesse impazzire, la risposta era la stessa: “Sempre la solita storia. E cosa volevi, l’aragosta?”.
Il nome bastava da solo a evocare un mondo lontano, scintillante, fatto di tovaglie bianche e camerieri in gilet. Le cose, in fondo, non sono cambiate tanto: epitome dell’alta cucina insieme al caviale e alle ostriche, simbolo di un’opulenza imbellettata, per molti cafona.
La verità è che la regina dei crostacei ha un passato da serva: è la Cenerentola del mare, divenuta principessa per un capriccio del gusto e del tempo.
Le origini umili dell’aragosta
Prima di finire nei ristoranti di lusso e nelle foto patinate, l’aragosta era considerata il pollo dei poveri. Le coste del Nord America erano letteralmente invase da questi crostacei: gli Algonchini ne facevano fertilizzante, per i primi coloni britannici erano gli scarafaggi dell’oceano e li mangiavano soltanto in mancanza di alternative.
C’erano così tante aragoste che gli schiavi si ribellarono a un trattamento crudele e inusitato, ottenendo una legge che ne vietava il consumo per più di tre volte alla settimana. Il problema era che la carne, una volta morta, si deteriorava rapidamente, sprigionando un odore descrivibile con il termine fishy – che ancora oggi, in inglese, significa sia di pesce, sia sospetto.
Insomma, non vi era nulla di desiderabile in quel cibo da galeotti, buono solo per ingrassare maiali o concimare campi.
Dalla povertà al piatto dei ricchi
Il riscatto arrivò a metà Ottocento per caso e progresso. Durante la Guerra Civile americana, l’aragosta divenne una risorsa perfetta per l’industria conserviera: facile da cucinare, da inscatolare e da trasportare. Poi arrivarono i treni e le ferrovie iniziarono a trasportare i turisti del Midwest fino alle coste del New England, dove assaggiarono per la prima volta aragoste fresche, per poi tornare a casa con la memoria del gusto e il desiderio di ripeterlo.
Da lì in poi fu un’ascesa. I ristoranti cominciarono a servirle come specialità e gli chef francesi le vestirono di nome e prestigio – celebre l’Aragosta alla Thermidor, dedicata all’opera teatrale di Victorien Sardou sul rovesciamento di Robespierre e la fine del Terrore. L’aragosta era finalmente uscita dalla prigione del disgusto: un simbolo di benessere, potere, eleganza.
La metafora psicologica dell’aragosta
Quando l’aragosta cresce, il guscio non le basta più. Allora si nasconde, lo lascia andare e resta nuda, morbida, per qualche giorno. Aspetta che il corpo ne formi un altro, più largo, adatto al passo successivo. È un gesto semplice, quasi naturale, ma racconta molto di noi.
Ogni volta che cresce, l’aragosta deve lasciarsi alle spalle la corazza che l’ha protetta. E per un breve tempo – ma pericoloso – è vulnerabile, indifesa.
Funziona come una metafora della crescita personale: la necessità di spogliarsi delle proprie certezze per ricostruirsi, attraversando la fragilità. Solo chi accetta di restare senza protezioni, anche per poco, può crescere davvero.
Lara, di Stefano Benni: la storia di un’aragosta
Il racconto di Benni, inserito nella raccolta L’ultima lacrima, affronta temi legati all’identità, alla consapevolezza e alla crudeltà umana. La voce narrante è quella di Lara, un’aragosta che attraverso un linguaggio limpido e poetico ripercorre la propria vita dal fondo dell’oceano al pentolone di acqua bollente.
Dietro la prospettiva animale emerge una questione umana: l’evoluzione di un essere senziente che si scopre diverso, curioso, dotato di linguaggio e desiderio in un mondo che non ammette diversità né empatia.
Il racconto nasce in una condizione di meraviglia: il mare è descritto come un universo pieno di misteri e leggi arcaiche – “nessuno è tanto grande da non incontrare un giorno qualcuno più grande di lui” – e l’aragosta è un’intelligenza aliena immersa in un mondo naturale coerente, crudele quanto equilibrato.
Nel momento in cui entra in scena l’uomo l’equilibrio si rompe. La sua presenza introduce la violenza gratuita, il grottesco, l’assurdo della crudeltà intelligente che non serve a sopravvivere, ma a dominare. E il tono cambia progressivamente: da lirico e contemplativo a claustrofobico e satirico.
La parte finale, quella nel frigorifero e poi nella cucina, ha una potenza feroce: la voce dell’aragosta si fa sarcastica, quasi filosofica, mentre l’essere umano diventa una parodia di sé stesso – un dio ottuso che trattiene il respiro prima di uccidere una creatura che, a differenza sua, ha compreso il senso del destino.
Infine l’attimo in cui, davanti alla pentola bollente, l’aragosta parla: “Ma lei, ci crede nella reincarnazione?” è di un’ironia tragica e perfetta e il linguaggio umano, simbolo del potere, viene restituito come scherno, come ultima rivendicazione di dignità da parte di chi non ne aveva mai avuta.
In Lara, insomma, Stefano Benni parla di libertà e di conoscenza, di coscienza e di morte, e soprattutto di come l’uomo, nell’illusione del dominio, riveli tutta la sua inconsapevolezza. E se il mare, all’inizio, era un mistero da esplorare, alla fine scopriamo che l’unico vero abisso è l’animo umano.
Etica e consapevolezza nei ristoranti
Del resto anche oggi, in molti ristoranti, le aragoste vengono purtroppo tenute vive negli acquari per essere immerse nell’acqua bollente. È una pratica che sopravvive più per abitudine che per necessità, ma che solleva interrogativi etici sempre più pressanti.
Gli studi scientifici hanno dimostrato che questi animali percepiscono dolore: tanto che alcuni paesi, come Svizzera e Nuova Zelanda, ne hanno vietato la bollitura in vita, imponendo metodi di abbattimento più rapidi.
Forse la fine dell’aragosta come simbolo del lusso sarà proprio questo: un accenno di pietà, perlomeno nei modi.
La storia dell’aragosta è una parabola di classe e coscienza
L’aragosta si è vista collocare dal concime al cristallo, dalla miseria alla mise en place, dal tabù alla prelibatezza – e forse, di nuovo al tabù. È il crostaceo che meglio racconta il nostro rapporto mutevole con ciò che mangiamo e siamo. Un tempo cibo per schiavi e galeotti, oggi risulta essere l’ultimo pasto più richiesto dai condannati a morte americani – come sottolinea anche David Foster Wallace.
E se non è una storia da romanzo questa, forse, davanti ai piatti che finiranno su Instagram dovremmo ricordare che, per ogni aragosta finita in pentola, una domanda continua a bollire insieme a lei: quanta umanità c’è davvero nel nostro appetito?
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