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Biologia marina

Il re del mare: alla scoperta del capodoglio

C’è un suono che nasce nelle profondità dell’oceano e attraversa il tempo come un’eco antica: è il canto del capodoglio.
Gli scrittori li hanno cantati, i navigatori li hanno temuti, e ancora oggi, quando il loro dorso emerge come una montagna viva, ci ricordano quanto siamo piccoli e quanto c’è ancora da esplorare.

 

Physeter Macrocephalus, colui che soffia dalla grande testa

Il nome scientifico del capodoglio non poteva che riguardare la sua maestosa caratteristica: Physeter Macrocephalus, ovvero il soffiatore dalla grande testa.

I maschi possono raggiungere i 18 metri di lunghezza e 57 tonnellate di peso, mentre le femmine, più piccole, si aggirano intorno ai 12 metri. Il loro corpo è tozzo e massiccio, di un grigio scuro uniforme che sfuma in macchie chiare vicino alla bocca.

Ma è il capo, immenso e squadrato, che cattura lo sguardo: può pesare anche 20-25 tonnellate e occupare circa un terzo del corpo dell’animale. La testa del capodoglio è satura di spermaceti, una sostanza cerosa che un tempo gli uomini cercavano avidamente, e che oggi si pensa sia fondamentale per il galleggiamento e l’orientamento acustico di questi giganti.

Il capodoglio appartiene alla famiglia degli odontoceti, i cetacei dotati di denti. Ma quei denti, affilati e robusti, non sono usati per masticare: servono nelle lotte tra maschi, nei rituali di forza e dominanza. La sua dieta predilige enormi cefalopodi, che caccia in immersioni di oltre 2.000 metri di profondità, restando sott’acqua fino a 45 minuti.

Un animale sociale in una struttura a stampo matriarcale

Sociale e protettivo, il capodoglio vive in strutture matriarcali dove le femmine e i piccoli formano nuclei stabili e solidali. I maschi, invece, percorrono rotte solitarie, riunendosi tra loro solo da giovani in “branchi di scapoli” e tornando verso le acque calde solo per accoppiarsi. E quando il pericolo incombe, il gruppo si stringe in una formazione a margherita, con i piccoli al centro e le code rivolte verso l’esterno: un cerchio di forza e tenerezza che racconta meglio di mille parole la saggezza della natura.

I branchi di capodogli vengono definiti clan. Ogni clan possiede un vero e proprio dialetto, fatto di sequenze complesse di click (brevi impulsi sonori combinati in schemi, detti codas) che variano a seconda del gruppo e servono come firme acustiche di appartenenza.

Nel profondo silenzio degli oceani, i capodogli tessono una rete di suoni che è molto più di semplice ecolocalizzazione: è un autentico linguaggio, denso di sfumature sociali e culturali. I giovani apprendono questi ritmi per imitazione, costruendo una solida identità di clan, tanto che due gruppi vicini spesso non si comprendono e si evitano, come se appartenessero a specie diverse.

Ma le meraviglie del loro linguaggio non finiscono qui: grazie al progetto CETI (Cetacean Translation Initiative), un’iniziativa scientifica degli ultimi anni il cui scopo è decifrare il linguaggio dei capodogli, oggi sappiamo che i codas hanno una struttura combinatoria sorprendentemente simile a un alfabeto fonetico, con ritmi, tempi, variazioni che suggeriscono la capacità di trasmettere significati sfumati. Alcuni suoni segnano la caccia, altri stabiliscono legami di affetto o cooperazione; le code in particolare caratterizzano le interazioni di gruppo e durano da pochi secondi a oltre mezz’ora.

I capodogli nella cultura letteraria, dai bestiari a Moby Dick

Prima ancora che la biologia potesse spiegarli, i capodogli avevano già trovato dimora nelle leggende di tutti i tempi. In epoche remote, i marinai narravano di isole che si muovevano: erano in realtà capodogli dormienti, scambiati per terraferma – o, almeno, così dicevano.

Nei bestiari medievali si raccontava di mostri giganti dai denti di roccia e dal dorso squamoso, capaci di inghiottire navi intere. I denti del capodoglio, simili all’avorio, furono confusi con i corni degli unicorni, venduti a peso d’oro da mercanti astuti.

Le narrazioni degli esploratori del Seicento e Settecento pullulano di storie di capodogli, molto spesso protagonisti di cacce crudeli ma che, per fortuna, non erano affatto facili da catturare.

E infine, c’è Moby Dick, la balena bianca che balena non era. Moby Dick (che deve il suo nome al capodoglio Mocha Dick, che per trent’anni è riuscito a sfuggire ai balenieri del Pacifico) è l’unico pensiero del Capitano Ahab, che lo cerca senza sosta, ossessionato dalla sua esistenza.

Nelle pagine di Melville, il capodoglio diventa molto più di un animale: è il simbolo del destino, della lotta contro l’inconoscibile, della follia umana che vuole conquistare ciò che non si può possedere.

È il mare stesso, indifferente e immenso.

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Fonte: Shutterstock
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